- 14 Gennaio 2015
- Brevetti
Sono in completo accordo con il contenuto dell’articolo del professor Dughiero e soprattutto con due punti fondamentali che vengono da lui ben focalizzati:.
1) Le startup non debbono essere fine a se stesse, ma un mezzo; debbono cioè essere l’inizio di quella che dovrà diventare dapprima una PMI e poi ancora crescere per generare profitto e generare posti di lavoro.
2) Le startup debbono essere il ponte tra i luoghi dove si produce innovazione e le imprese le quali dovrebbero trasformare le idee innovative in vero e proprio business. Ma se «il ponte» non c’è, è evidente che le startup saranno sempre più legate alla genialità di qualche singolo, alla produzione di speciali software o di App che potranno avere anche successo, ma che non potranno mai risolvere il problema di quel 40% di giovani che sono fuori dalla realtà economico-produttiva.
Ricordo che nel 2012 Corriere Innovazione pubblicò una mappa dei Centri di Ricerca del Triveneto che sono ben 96, senza tener conto delle Università dell’area. Della maggior parte di questi Centri di Ricerca, che avranno pur delle eccellenze, pochissime aziende sanno «chi fa cosa»! Un indice significativo, anche se non esaustivo, delle condizioni in cui si trova la Ricerca Universitaria, è dato dalla tabella che segue e che riguarda i brevetti pubblicati da alcune Università Italiane, dal CNR e da alcune Università Americane.
Come si osserva, c’è letteralmente un abisso tra la produzione di brevetti, e quindi di innovazione, delle Università Americane, e quelle italiane. Eppure se ci fermiamo a valutare il numero delle pubblicazioni scientifiche di riviste prestigiose e internazionali, i nostri ricercatori non sfigurano affatto, visto che l’Italia nel 2012 si è piazzata al 4° posto nel mondo. Dati recenti presi dalla rivista Nature mostrano che i ricercatori italiani superano in produzione anche quelli statunitensi. Se poi valutiamo il basso numero dei ricercatori italiani e le ridottissime finanze a disposizione della ricerca, ne risulta che la quantità delle pubblicazioni indica che la creatività italiana è insuperabile rispetto allo scenario mondiale.
Come combinare quindi questi dati che sono nettamente in contrasto, ovvero l’alta produzione di pubblicazioni e la pressoché nulla produzione di corrispondenti brevetti? Ritengo che una prima ragione sia da ricercare in un grande problema «culturale» che è comune alle Università e ai Centri di Ricerca: manca infatti la cultura del giusto ritorno economico, del valore aggiunto dell’innovazione. Questa cultura non appartiene ai ricercatori italiani, ma è invece il motore primo dei ricercatori americani. La prima preoccupazione dei ricercatori italiani è quella di pubblicare, non di brevettare. Quanti brevetti sono stati invalidati per avere pubblicato esiti della ricerca prima ancora di depositare la relativa domanda di brevetto! C’è poi da rimarcare che la maggior parte dei pochissimi brevetti depositati dalle Università rimangono brevetti solo italiani e non vengono estesi all’estero per mancanza di fondi.
La seconda ragione è da individuarsi sulla mancanza di fondi per la brevettazione. Di conseguenza la pubblicazione dei risultati della ricerca «regala» al mondo intero i risultati della ricerca italiana. Quale startup, o quale industria italiana o estera potrebbe essere interessata ad acquisire o a prendere in licenza da un ente di Ricerca o da una Università, un’invenzione solo protetta in Italia, quando l’area del mercato è il mondo intero? C’è quindi bisogno di un cambio di mentalità decisivo: le Università e i Centri di Ricerca si debbono impegnare a depositare brevetti e a far estensioni all’estero con l’ottica di generare flussi di denaro in ritorno da royalties o da cessioni di brevetti. Le startup, se vogliono divenire effettivi soggetti economici e conquistare il mercato mondiale, debbono anche loro proteggere la loro innovazione per poi valorizzarla attraverso licenze o cessioni nei Paesi dove c’è mercato, ma dove la struttura debole delle startup non può arrivare. Gli americani ci insegnano che una innovazione è presa in considerazione se genera un ritorno economico significativo, altrimenti è scartata, o sarà comunque destinata a divenire un flop. In Italia le buone idee non mancano, né mancano i giovani pronti ad utilizzarle: basta che il «ponte» di cui parla il professor Dughiero si fondi su pilastri forti, ovvero su azioni che abbiano come obiettivo principale un risultato economico importante e per quanto possibile accelerato.
Ercole Bonini
Articolo pubblicato su “Corriere Innovazione“