- 23 Luglio 2018
- Brevetti
Per le aziende italiane, che sono per la maggioranza piccole e medie industrie, brevettare la propria innovazione significa porre un argine legale alle copiature dei concorrenti. La brevettazione è quindi percepita come una necessità, ma anche come un costo. Si può paragonare ad un’assicurazione contro gli attacchi che, prima o poi, verranno al proprio prodotto appena immesso sul mercato. Naturalmente, l’azienda cerca di limitare il più possibile la spesa estendendo il brevetto solo nei Paesi dove sa di avere un mercato certo.
Mai l’azienda si azzarderebbe ad estendere il brevetto nei Paesi dove non conosce agenti o aziende interessate a prendere l’esclusiva di una innovazione, pur interessante per diversi aspetti, come la soluzione di inconvenienti importanti, magari ad un costo del prodotto minore.
Questa necessità così percepita spiega anche perché l’Italia è ben ultima in Europa, per non parlare nel mondo, a depositare brevetti: le aziende sono piccole e cercano di risparmiare il più possibile spendendo solo per l’indispensabile.
Oggi, però, l’azienda è costretta a muoversi con una azione di più ampio respiro: il mercato non ha più confini, è divenuto mondiale e il brevetto è richiesto come condizione irrinunciabile dagli agenti stranieri perché assumano il rischio di una vendita esclusiva nel loro territorio. Infatti, solo con il brevetto, ad esempio in USA, l’agente americano può impedire ad altri di entrare con lo stesso prodotto nel suo territorio di esclusiva. Ma c’è di più, sempre rimanendo negli USA, una società americana piò chiedere all’azienda italiana titolare del brevetto statunitense, non solo di vendere, ma anche di produrre, sotto la condizione di licenza esclusiva, il prodotto dell’azienda italiana. Questo è il massimo ciclo virtuoso che un brevetto può realizzare: far costruire e vendere ad altri la propria innovazione verso il pagamento di royalties.
In questo modo entra finanza fresca in azienda, senza obblighi di ulteriori investimenti, ma con il solo beneficio di rafforzare la propria capacità di spesa senza indebitamenti e quindi avendo la possibilità di ingrandire la propria struttura, organizzando meglio le funzioni aziendali. Questo è il passo necessario perché l’azienda da piccola passi a media, o da media a grande.
Questa capacità di raccogliere finanza può essere considerata uno “speciale crowdfunding” per le azienda che incassano denaro attraverso le royalties con vantaggio anche per chi le paga perché, più aumentano le royalties pagate, più aumenta il volume del proprio business.
La mia non è solo un’opinione: è una realtà che ho potuto riscontrare recentemente incontrandomi negli Stati Uniti con chi fa della attività di licensing per le aziende il proprio “core business”. Lì si parla di milioni di dollari di trasferimenti come noi parliamo di qualche decina di migliaia di euro. E il
licensing non è una novità riservata a chissà quale multinazionale. No, lì è pratica frequente, direi quasi giornaliera.
Le aziende americane hanno questa mentalità, sanno che i brevetti o le licenze si possono vendere o comprare: l’importante è che si crei e si aumenti il business. E vi garantisco che il business si crea con grande facilità, naturalmente se l’idea è buona e trova il gradimento del mercato.
Quello che manca a noi italiani, non sono certo le buone idee, il buon prodotto, ma la visione allargata su cosa si può ottenere da un prodotto nuovo e originale se si abbandona l’idea che una PMI non può servire con i suoi prodotti il mondo intero: ma può trovare una o più aziende che lo fanno per lei e sono disposte a pagare anche profumatamente. Basta provare: i canali ci sono e funzionano.
E il crowdfunding generato dalle royalties, se ben gestito, convoglia un’importante massa di denaro all’azienda.
e.bonini@ ipbonini.com
Articolo pubblicato il 27 maggio 2018 su veneziepost.it
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